testi anni 2000

Le ombre del tempo

in “Paolo Monti, fotografie. Il furore del nero”, Skira, Milano-Ginevra 2012

… Noi siamo un po’ elementari, siccome il nero fa paura, come una stanza buia, se vediamo dell’acqua nera, diciamo è l’acqua del terrore, è l’acqua di E. A. Poe. Macchè acqua di Poe, è acqua di un nero dolce e grafico, la cui forza essenziale si esaurisce, appunto, nel comunicarci un senso di bellezza ritrovata. Quasi, è tanto limpida – e credo piena di tremori – l’ emozione di Monti, che diventa più oggettiva e ‘sociale’ la sua fotografia, che quella di chi intromette tra la propria macchina e il soggetto fantasmi di ‘istanze’ e umanesimo muffo.
La Forma, va bene, c’è solo la Forma. Ma pensiamo a Monti, a Steinert, e più in là agli svedesi, o agli americani della Costa del Pacifico, trent’ anni fa: Weston leggendario come un’eroe delle guerre di secessione, con la sabbia calda nelle scarpe, chilometri nelle foreste col cavalletto angoloso, il rigore estetico che trasforma in eremiti. Mi piace pensare che anche Monti abbia scattato la sua foto con una macchina grande e semplicissima, il diaframma piccolissimo e niente otturatore, ma un patetico coperchietto di cartone. Dicci che è vero Monti, dicci che scivolavi continuamente e avevi sassi aguzzi sotto i piedi, e grande tumulto in testa, e sudore. Addio Forma: ecco una nuova ‘moralità’, ecco la Sostanza.

Rileggo, un po’ allibito, questa conclusione di una nota critica dedicata a ‘Un Paesaggio’: una foto di Paolo Monti pubblicata su Fotografia, il mensile diretto da Ezio Croci, nel novembre del 1957. Sotto c’è la mia firma. Avevo ventidue anni. Forse era il mio primo testo dedicato al linguaggio fotografico.
Tolta l’evidente ingenuità di stile, il mio interesse di esordiente appare per molti aspetti convergente con l’ispirazione di chi ha redatto tutto il libro che stiamo sfogliando. Monti e ‘il nero’, il tono dell’ombra, che allora con evidente, simbolica ideologia operativa, univa le generazioni dei nuovi autori del dopoguerra, in tutta l’Europa. E si opponeva alle compiaciute inquadrature idilliche, chiariste, ‘mediterranee’ proposte da Giuseppe Cavalli e dai colleghi de ‘La Bussola’. La fotografia in bianconero, per gli autori professionisti, e per i liberi ricercatori (non chiamiamoli fotoamatori) almeno dagli anni 30 e fino agli anni 80 del Novecento, ha costituito un vero ‘sistema’ compiuto. Ingrandimenti di estrema qualità tonale, nei formati da esposizione 24×30 o 30×40, eseguiti con meticolose prove a ripetizione, dagli autori, personalmente… dopo un attento sviluppo dei negativi 6×6 cm (più spesso) oppure 24×36 mm. Cavalli, Monti, Donzelli – i tre maestri ispiratori della fotografia italiana del dopoguerra – preferivano il medio formato. In tutta Europa e nei Paesi anglosassoni le mostre, ed i loro cataloghi, permettevano una elitaria circolazione di idee, soggetti, inquadrature, toni di stampa. I fotoclub – sopratutto in Francia, Usa, Inghilterra, Germania – scambiavano gli ingrandimenti migliori in centinaia di mostre, che generavano a loro volta discussioni tecnico-formali, polemiche sulle scelte più o meno ‘moderne’ dei soggetti, e obiezioni feroci alle giurie che assegnavano i premi.
Il nero che da subito – alla fine degli anni 40 – pervade le fotografie di Paolo Monti non è solo la risposta ai ‘toni alti’ dell’amico Giuseppe Cavalli, ma presuppone a mio parere una sorta di auto-analisi, di atteggiamento esistenziale dell’autore di fronte al panorama naturale (o ‘materico’) che lo circonda. Qualcuno poi definirà Paolo ‘il più nordico’ tra i fotografi italiani. In realtà egli chiudeva molto spesso le ombre, per dare un segno di forza grafica – come mi era apparso subito – alle sue meditate inquadrature. I neri di Monti, le nette separazioni dalle luci sono orgogliose affermazioni di autonomia e indipendenza artistica. Come si è teorizzato il ‘momento decisivo’ bressoniano, allo stesso modo vi è in Monti l’atto ‘decisivo’ del chiaroscuro, ed è qui che egli gioca ogni volta – assieme all’inquadratura – le carte della sua creatività più profonda.

Ho conosciuto Monti l’anno dopo il mio testo su Fotografia. Io lavoravo al Servizio Pubblicità dell’Agfa Foto. Monti prediligeva in camera oscura le famose Carte Agfa Brovira. Cominciando a capire il prestigio della sua produzione, feci acquistare alcune sue immagini dai miei mega-direttori. In seguito cercai di coinvolgerlo in alcuni foto-servizi – alcuni con modelle, addirittura, il che non era esattamente la sua aspirazione professionale – mentre iniziavo un rapporto di amicizia che sarebbe continuato fin quasi all’anno della sua scomparsa. Frequentavo spesso la sua casa milanese in via Tasso, dove si era trasferito definitivamente da Venezia. Ero poco più di un adolescente e Paolo – senza figli – rovesciò forse su di me qualche suo bisogno affettivo. Per la stessa ragione ospitava generosamente a casa sua Giuseppe Turroni, quando veniva a Milano da Meldola, nella natia Romagna. Il rapporto era tuttavia diverso: Turroni era riservatissimo, spariva lungo un corridoio pieno d’ombra, e si guardava dall’intervenire nelle interminabili conversazioni tra Paolo e Romeo Martinez. Questi era di origine messicana, ma aveva trascorso la sua giovinezza in Italia. Era di carattere opposto, estroverso, aggressivo, dialetticamente sempre sicuro… quanto Paolo era scettico, dubbioso, pessimista, ironico (e autoironico)… Spesso parlavano del loro rapporto con le donne – erano dei libertini da salotto, per così dire – ed io li ascoltavo, timido e inesperto. Mi elargivano consigli su tutto: anche sulla condotta che avrei dovuto seguire dopo il mio matrimonio. (Che avvenne tre anni dopo, nel 1961, con Paolo testimone, ma che non fu fortunato). Martinez – che dirigeva il mensile internazionale Camera a Lucerna e che a Parigi era una sorta di consulente culturale della Magnum – descriveva le imprese dei grandi autori del fotogiornalismo, mettendone in risalto grandezza ed errori. Monti ascoltava ed annuiva, in parte soggiogato dal dirompente eloquio di Romeo. Poi mi strizzava l’occhio per minimizzare e – rimasti soli – concludeva ‘Che temperamento, è un vero hidalgo!’

Giuseppe Cavalli e Pietro Donzelli – le cui scelte di linguaggio erano diverse e per molti aspetti opposte – erano accesi rivali, e a loro volta influenzavano i più giovani autori. Cavalli a Senigallia allevò e spinse Mario Giacomelli, e riunì poi i suoi giovani seguaci nel ‘Gruppo Misa’, quasi a continuare le imprese de ‘La Bussola’. Donzelli ispirò le scissioni anti-formaliste del Circolo Fotografico Milanese, scoprì il talento di Mario De Biasi e divulgò poi molte ricerche sulle figure storiche della fotografia, assieme al giovane amico Piero Racanicchi.
Tra Venezia e Milano, Monti seguiva – con lodi misurate e smisurate critiche – il lavoro dei giovani amici De Biasi, Fulvio Roiter, Gianni Berengo Gardin. Ma i tre venerati maestri avevano curiosamente anche dei tratti comuni. Mentre la carica innovativa nel loro modello visivo, la fotografia, risultava innegabile, e difesa con ostinazione… apparivano stranamente dei conservatori nelle diagnosi politiche e sociali, e nelle scelte verso le altre discipline artistiche. Erano tre liberali-conservatori in sostanza, ancorati ad un certo immobilismo della società italiana: parliamo degli anni ‘50 e ‘60, non dimentichiamolo. E mentre, Cavalli compreso, conducevano una meritoria battaglia di svecchiamento della fotografia artistica… stentavano ad accettare una generale evoluzione degli altri modelli di espressione. Per loro nulla era accettabile oltre la musica classica (Donzelli: ‘Dopo Beethoven non c’è che Beethoven’). Morandi o Giacometti rappresentavano l’ultima frontiera per la pittura e la scultura. Al cinema non andavano. Giuseppe Turroni, che in quegli anni viveva praticamente in platea, mi confidava ‘A Monti non piace Visconti, chissà perché’.

Paolo Monti considerava Mario Giacomelli, alla fine degli anni ’50, come l’uomo ‘nuovo’ della fotografia italiana. Come tutti gli autori che ne seguivano l’opera – allora dedita con accanimento a narrare il paesaggio marchigiano – anche Paolo era colpito dalla rivoluzione tonale che Giacomelli stava conducendo, contro tutta una storica tendenza dei nostri fotografi nei confronti delle strutture naturali. E pochi anni dopo, i colli oscuri di Mario, segnati dai solchi drammatici delle arature, la sua terra simbolicamente ferita, avrebbe stupito, e conquistato la cultura fotografica Usa, fino alle maggiori istituzioni museali. Giacomelli – e Monti ne prendeva atto – rovesciava i valori tonali di Weston e Adams, i graduali passaggi di grigio frutto di esposizioni e stampe accuratissime. E per questo negava implicitamente il dogma americano su ogni possibile fedeltà di resa tonale del visibile attraverso il bianconero.
Giacomelli a sua volta riconosceva ai toni d’ombra di Monti una primogenitura, legata del resto a tutta la tendenza nord-europea verso i toni bassi, come ho già cercato di ricordare. Monti amava Giacomelli perché si sentiva parte di un comune progetto narrativo col movimento della ‘Subjektive Fotografie’ di Otto Steinert, allora il maestro della fotografia tedesca. Negli oscuri vortici delle stampe di Steinert (come di Lauterwasser e di Hajek-Halke) era riflessa simbolicamente la condizione drammatica del dopoguerra, la sconfitta – davanti alle macerie – di ogni gioia di vivere. Paolo Monti del resto, sostava con la stessa amara emozione davanti ai graffiti sui muri dei campielli a Venezia, davanti alle pietre della sua Val d’Ossola. O puntava la sua Rollei verso gli asfalti della periferia milanese. O infine verso i manifesti lacerati, verso le travi sconnesse o i battenti scrostati nelle soffitte. Nel ricostruire i suoi percorsi visivi, oggi non posso che riconoscervi il suo carattere, la natura (contemplativa ma dolente) del suo sguardo. In lui lo stupore ‘creativo’ di fronte ai paesaggi, alle strutture materiche, ai residui dell’esistenza umana, testimoniava di fatto la nobile solitudine dell’artista contemporaneo. I giovani fotografi delle associazioni, i suoi allievi all’Umanitaria di Milano, o più tardi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, lo ammiravano e ne rispettavano la riservatezza. Allo stesso modo i committenti del suo lavoro professionale, che frequentavano il suo Studio 22 a Milano, in corso Sempione, riconoscevano in lui un interlocutore particolare. Egli padroneggiava il sistema tecnico di ripresa e di laboratorio (di quegli anni) come molti colleghi… ma sviluppava una dialettica, una personale cultura della comunicazione visiva come nessun altro. La battaglia di Monti – alla guida dell’Associazione Professionale AFIP – era rivolta a contrastare l’antica condizione subalterna del fotografo verso il committente. Egli sapeva contrapporre la propria erudizione personale a quella degli editori, degli architetti, dei dirigenti pubblici con cui operava. Durante le campagne fotografiche per i fotolibri ‘Attraverso l’Italia’ del Touring Club Italiano, Monti pianificava dialetticamente, assieme ai redattori, la scelta dei siti monumentali, le vedute urbane più importanti, le descrizioni museali
d’obbligo. In sostanza, Paolo Monti era un interlocutore intellettuale per tutti suoi clienti… che ne stimavano (o forse ne temevano) l’autorevolezza.

Mi è capitato di seguire Paolo durante le infaticabili giornate di ripresa alla Triennale (credo nel 1960) e ho poi analizzato le sue magnifiche inquadrature sull’intervento di Franco Albini al Museo di San Lorenzo a Genova; sul lavoro dello Studio BBPR nei Musei milanesi del Castello; su quello dell’amico Carlo Scarpa a Venezia, oppure al Museo di Castelvecchio a Verona… Paolo Monti convinceva gli architetti a delegargli la libertà di inquadratura. E trasformava un progetto bidimensionale, su carta, in una visione prospettica nitidissima: in certo modo egli diventava partner, oltre che interprete, dentro ad ogni intervento architettonico.
Credo che questa collaborazione rispettosa ma dialettica con gli architetti, l’abbia poi convinto – circa alla metà degli anni ’70 – a dedicarsi alla narrazione degli scenari urbani. Egli la chiamava, con modestia, ‘documentazione’. E sembrava in effetti una rinuncia a testimoniare attraverso il proprio sguardo personale, creativo, i centri storici di città e paesi, soprattutto in Emilia Romagna (da Bologna a Ferrara, da Cesena a Ravenna).
Paolo Monti, con la sua Nikon dotata di obbiettivo grandangolare ‘decentrabile’ riprendeva infaticabilmente le vie porticate liberate dalle auto, i vigneti assolati, le cupole delle basiliche. Attraverso una sorta di bulimia visiva, egli sembrava dimenticare le meditate riflessioni condotte lungo circa un trentennio, dal 1947-48 ai primi anni ’70. Ma forse si trattava invece di un nuovo definitivo abbraccio alla realtà… condotto deliberatamente ‘senza stile’. Un estremo atto di vita, piuttosto.

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