testi anni 2000
in “Il Manifesto/Alias”, 17 marzo 2001
A Reggio Emilia, nella duplice sede di Palazzo Magnani e dei Chiostri di S. Domenico, ancora per pochi giorni, è aperta una grande mostra, per un grande fotografo. Da non perdere, e sono due i motivi. Il primo perché l’opera di Luigi Ghirri (1943-1992) non era ancora stata presentata in modo così completo ed organico: settecento immagini, in gran parte riprodotte nel bel catalogo Motta. Il secondo perché separando i due capitoli essenziali del suo breve percorso creativo, lungo vent’anni, si evidenziano nettamente due tappe nell’evoluzione del linguaggio della fotografia. E si descrive con immediatezza la maturazione incessante di un autore, la dirompente liberazione della sua ‘personalità’. Questa scansione didattica della mostra fa onore al curatore Massimo Mussini, che di Ghirri seguì l’opera con amicizia fin dagli esordi, e a Paola Borgonzoni Ghirri, compagna di una grande avventura umana e culturale.
Il primo decennio del lavoro di Ghirri negli anni 70 chiarisce i suoi debiti storici. In modo esplicito verso gli amici artisti ‘concettuali’ (Guerzoni, Parmiggiani, Vaccari) delle cui opere egli è stato in certo modo il cronista. In maniera forse meno conscia, verso alcuni maestri della fotografia italiana degli anni precedenti, la cui opera ancora va contestualizzata (ricorderemo i deserti litorali adriatici di Giuseppe Cavalli negli anni 40/50, i paesaggi di Mario Giacomelli negli anni 60, o anche quelli d’esordio di Franco Fontana, poco successivi. Di tutti possiamo sentire l’eco distinta a Reggio Emilia). Proprio agli inizi dei 70 Luigi Ghirri mette a punto una ricognizione sui sedimenti visivi che contrassegnano il suo piccolo universo urbanizzato, tra Modena e la provincia. Sono provocazioni ottiche. Fotografie di altre foto chiuse in patetiche cornici, tele con paesaggi kitsch appoggiate sull’asfalto, vetrine malinconiche, l’universo del lettering consumistico, strutture solcate da graffiti, simulacri e apparizioni artificiali d’ogni tipo. E’ questo l’humus ideologico sul quale si appresta a camminare: la sottolineata consapevolezza che noi vediamo attraverso il ‘già visto’ di altri… e che lo scontro avviene tra le visioni ‘scontate’ , appunto, ed un nostro possibile recupero, mediante una creatività alternativa. Il David di Michelangelo, litografato su un posacenere pieno di mozziconi; le miniature miserevoli degli edifici classici nei parchi ‘tematici’ della costa adriatica; pareti e scrivanie come microscopici set per la commedia degli oggetti quotidiani. L’ironia di Luigi è precisa, ma umile sul piano esecutivo. Sembrano scherzi cui lui per primo non creda fino in fondo. Le stampe a colori sono spesso quelle dei minilab per amatori, a confermare il suo trasandato minimalismo.
In realtà Ghirri si produce in un lungo allenamento, fatto di annotazioni sempre in primo piano, che lo porterà a misurarsi negli anni seguenti con un deciso ampliamento di scenari, di visioni, con lo sviluppo memorabile di un personale ‘sistema visivo’.
Ghirri – pressappoco all’inizio degli anni 80 – capisce che un’idea ironica, un’occhiata sapiente ma non organizzata (non organica) sono insufficienti a definire il proprio ambizioso programma intellettuale. Così, mentre noi oggi ci spostiamo, attraverso Reggio, dai Chiostri a Palazzo Magnani, possiamo riflettere sui nuovi grandi scenari narrativi che Luigi comincia a vedere, o meglio a inventare.
Egli continua ad organizzare le sue fotografie entro binari di grande semplicità, o plausibilità tecnica: il negativo a colori con camere di medio formato ,quasi tutto a fuoco senza mai privilegiare un vero primo piano, e sempre un’inquadratura apparentemente ‘rilassata’, senza tensioni prospettiche o lacerazioni tonali al suo interno. Ma ora Ghirri ordina questi segni possibili del reale (paesaggi, architetture, spazi interni, angoli, oggetti) dentro una forma-cultura che si fa sempre più profonda. Ed in certo senso anche più spettacolare. Se vogliamo, ‘maestosa’. Egli continua la sua sottolineatura critica , la sua convinzione che le visioni già ‘filtrate’ siano quelle entro cui operare, che la vera innovazione creativa stia in una sommatoria spiazzante di linguaggi. Dietro il livido distributore notturno sulla Via Emilia riconosciamo il vecchio incubo della pop-art e prima ancora Edward Hopper. Ma la grandezza di Ghirri sta nella consapevolezza esplicita delle citazioni; nell’immetterle entro un contesto ‘testimoniale’ personale, il che sempre accade quando si realizzano delle fotografie. Ghirri sa che chi apprezza una sua foto ha digerito – per così dire – Hopper . E che l’artificio della sua creazione fotografica, rispecchia l’artificio ‘teatrale’ della nostra esistenza, di tutti gli spazi della nostra contemporaneità.
Una critica, non del tutto infondata, fatta in anni recenti all’opera di Ghirri, è proprio la riduzione dello scenario territoriale (l’Emilia ottimista, sensuale, socialmente appagata) a palcoscenico un po’ caricaturale. Mentre passa veloce il tempo – nove anni ahimè dal funerale di Luigi con le note di Bob Dylan – ci accorgiamo che in realtà il nostro environment acquista la dimensione di un palcoscenico sempre più scassato. Le demolizioni riprese al tramonto, le saracinesche. Siepi e villette, giostre neo-felliniane ferme nella notte, poveri intonaci ‘morandiani’… sono i nuovi spazi disponibili per il teatrino della nostra vita. Se il palcoscenico è polveroso, le battute che Ghirri pronuncia hanno invece una consapevole freschezza inventiva. La sua visione si allarga, egli incorpora sempre nuovi miti, li supera ironicamente e con questo ci addita ‘quello che dobbiamo scontare e superare’ anche noi. Si può dire in sostanza che le foto di Ghirri sono dei contenitori simultanei di cultura visiva e di intervento sul reale : sul povero reale che i nostri sguardi riescono a toccare.
La scommessa artistica che Ghirri propone e vince (quasi) sempre, consiste anche nel negare una supremazia di valore alle testimonianze ‘dirette’ sulla vita. Dopo decenni di fotografia ‘umanistica’, di reportages che ci hanno meritoriamente abituati (da Evans, a Cartier Bresson, a Salgado tanto per citare) ad assimilare i rapporti dialettici dentro la società contemporanea… Ghirri ora si sposta – ci sposta – dentro una testimonianza critica sui rituali, sulla falsità di questa nostra vita, oggi.
Dalla seconda metà degli anni 80 il nostro autore – che è anche divenuto un operatore a tempo pieno della cultura fotografica italiana – viaggia sempre più spesso lontano dall’Emilia. E ci lascia memorabili visioni di città – ben lontane dalla sua piccola patria – con cui si misura per la prima volta. Roma, New York, Lubiana, Venezia, Parigi, una stupenda Versailles ‘onirica’… Anche qui Luigi Ghirri non vuole osservare direttamente le relazioni fra gli uomini, ma guarda e studia, in distaccato silenzio, le loro tracce. Qualche piccolo personaggio appare in campo lungo, talvolta. Ma di foto in foto, si allontana una piccola folla di noi stessi, di spalle, metafora del nostro modesto cammino attraverso i grandi eventi della vita. I grandi eventi della natura, che Luigi ci mostra però sempre imbrigliata, deformata, mal governata; ed i grandi eventi degli spazi metropolitani, dinosauri non più addomesticabili, che ciecamente digeriscono tutto, tutto inglobano dando luogo a una seconda ‘natura artificiale’.
Nelle grandi sale antiche di Reggio Emilia, tra cornici e passepartout, nella Biblioteca Panizzi tra le scatole dove Laura Gasparini custodisce con filologica attenzione i 150mila negativi di Ghirri… si conclude per ora il destino di un autore scomparso nel pieno della sua forza creativa. In realtà, il metodo critico che egli ci addita – entusiasmo laico, dolcezza e ironia, cultura, acuta capacità selettiva nel visibile – potrebbe sopravvivere come lezione nei nuovi talenti di cui la fotografia europea è in continua attesa.
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