testi anni 2000

Nella città operaia

in “Tranquillo Casiraghi. Un uomo coerente”, a cura di Giovanna Chiti, Quaderni dell’Archivio Fotografico Toscano, Prato 2007 

Ripensando, in questa occasione, alla complessa vicenda personale di Tranquillo Casiraghi, ci appare inevitabile il rifiuto di quella netta separazione – sempre invocata dai critici – tra l’uomo e l’artista, tra il momento creativo ed il comportamento dentro la società. Questa separazione non è possibile in senso assoluto e tanto meno lo è stata per Tranquillo. Si può dire anzi che la sua scomparsa ha privato gli amici (e tutti quelli che lo hanno conosciuto, anche fugacemente) di un rapporto che era sempre, contemporaneamente personale e sociale. Nel senso che la consapevolezza di un ruolo culturale – di produttore culturale – era presente e guidava ogni atto della sua vita privata, dalle responsabilità familiari fino a quelle della professione. Tranquillo non ha mai pensato che lo spazio per la propria personalità creativa – nel linguaggio scelto, la fotografia – potesse scindersi dal proprio ruolo nella società e nell’ ambiente ove era cresciuto: Sesto S.Giovanni, storico bacino di fabbriche ai confini settentrionali di Milano fin dalla metà dell’Ottocento. E dal secondo dopoguerra laboratorio di una memorabile trasformazione politica e territoriale.
Tranquillo Casiraghi, che appena ventenne aveva avuto una fugace esperienza di lotta partigiana, si trova al centro – nel decennio 1946-56 – di una drammatica epopea sociale. I contadini della vicina Brianza diventano operai, inizia il flusso migratorio dal Meridione, e il territorio di Sesto si popola di case-alveare, mentre i vecchi insediamenti industriali si allargano e si modernizzano continuamente. All’inizio degli anni 50, quando Tranquillo inizia a fotografare, diventa subito esplicito il suo programma di ‘cittadino con la fotocamera’. Integrare attraverso le immagini il proprio ruolo, o meglio il proprio impegno ideale e politico. Usiamo questi due aggettivi assieme proprio per chiarire che Tranquillo Casiraghi – definito spesso come pericoloso estremista di sinistra, sopratutto nell’ambiente dei circoli fotoamatoriali – restò sempre estraneo ad ogni forma di faziosità. Anzi, visse a fondo, soffrendone, le contraddizioni tra la speranza planetaria per la vittoria del socialismo, e la relativa arretratezza culturale della sinistra italiana. E’ inutile qui ricordare per esteso i dilemmi che negli anni della guerra fredda scossero ogni militante comunista o socialista… alla ricerca di una originale via italiana , che la nostra società , per la contingenza storica, non poteva ammettere.
Tranquillo credeva – e spesso ce lo confidò – che occorresse agire ‘dentro’ i bisogni dei cittadini subalterni; ma questa dimensione ‘etica’ che lo percorreva finiva col ribellarsi verso le prese di posizione, troppo dogmatiche, del Pci… sopratutto quelle imposte dai dirigenti della piccola ‘Stalingrado d’Italia’. Così la crisi dei militanti dopo la repressione d’Ungheria (1956) spinse il nostro, ormai trentenne, a fiancheggiare la sinistra sestese senza più tessera, a testimoniare criticamente la trasformazione del territorio… ad additare le degenerazioni visibili, che spesso non venivano tempestivamente interpretate sul piano amministrativo.
Ricordiamo anche noi – se ce ne fosse bisogno – che la trasformazione dello storico insediamento della cascina Torretta fu il primo memorabile episodio di affermazione e maturità artistica del fotografo Tranquillo Casiraghi. Qui egli raccontò se stesso, i familiari, gli amici e compagni… ed assieme la mutazione antropologica, irreversibile, degli ultimi contadini in operai. Lo soccorse naturalmente la lezione della fotografia sociale Usa sviluppatasi fin dagli anni 30, e all’interno di essa la lezione stilistica di uno dei suoi esponenti maggiori, Paul Strand.
Il ritratto col protagonista che guarda nella camera, posando con ‘autocoscienza’, attorniato da pochi elementi rivelatori dell’ambiente (segni sul muro, oggetti d’uso, poveri spazi residenziali) diventa in certa misura una autoritratto: dove Tranquillo, e la sua vita, si ricompongono coi vicini, in certo senso condividendo lo stesso destino. Ma il messaggio strandiano (e quello, scoperto successivamente, dell’antico maestro tedesco August Sander) appare rielaborato, senza segni di populismo. Diventa anche il recupero di una difficile identità italiana, pur se declinata solo al nord del Paese. Attraverso i suoi ritratti Casiraghi sembra offrire un risarcimento ‘formale’ ai suoi soggetti, un riscatto a cento vite difficili, a cento faticosi orizzonti.
Poco dopo, mentre le crepe della Cascina Torretta cominciano ad allargarsi, a provocare crolli e sfollamenti, Tranquillo si appresta a vivere il decennio decisivo per la sua attività. Il passaggio da una iniziale condizione di operaio a quello di ricercatore nei laboratori scientifici prima della Breda, poi della Sicedison e quindi della Montedison, gli permettono di dedicare tutto il suo tempo libero alla fotografia,e di seguirne tutta la vicenda culturale, in anni di cruciale evoluzione, almeno nella produzione italiana.
Casiraghi non passerà mai alla professione, nè venderà mai le sue immagini, ad eccezione di un limitato contributo con Il Mondo di Pannunzio. Eppure nessuno più di lui si batterà contro i limiti intellettuali del dilettantismo, della pratica ‘domenicale’ intesa come pura auto-gratificazione. Dopo quel decennio, naturalmente, la rivoluzione del tempo libero, la diffusione di massa degli strumenti, una diversa cultura diffusa, muteranno i termini della questione, ed il fotoamatore si trasformerà spesso in un promotore di ricerche più approfondite di quelle condotte da autori e professionisti a tempo pieno. Ma se dobbiamo rievocare le polemiche che videro Tranquillo – e i suoi amici – in prima linea contro l’atmosfera di certi circoli fotoamatoriali, dobbiamo descrivere sommariamente quel preciso momento di transizione.
Sono ormai notissimi i termini della questione. Ai vecchi maestri attivi già nell’anteguerra – molti fotoamatori, pochissimi operatori professionali – si vanno aggiungendo polemicamente, a metà degli anni 50, i nuovi protagonisti. Alla Bussola di Giuseppe Cavalli , al Gruppo Misa che accoglie Branzi, Camisa, Giacomelli… si affiancano Paolo Monti leader a Venezia de La Gondola, e l’Unione Fotografica di Pietro Donzelli, mentre emergono nella professione dei talenti isolati come Ugo Mulas o Aldo Ballo e la pattuglia dei fotoreporter-autori, come Garubba o Bavagnoli. Alle soluzioni formali di tipo pittoricistico (il deprecato ‘salonismo’) si sostituiscono il linguaggio del neo-realismo, con la sua evidenza documentale, e più tardi verrà la violenza tonale di strutture ed oggetti mutuata dalla Pop Art. Sempre dalla metà degli anni 50, infine, si impongono dei settimanali di informazione, come Epoca, che presentano sistematicamente foto-servizi con qualità ‘d’autore’.
Tranquillo, senza estremismi, cerca anzitutto di organizzare (attraverso l’attività della Biblioteca Civica di Sesto, diretta da Lincoln Cadioli) le possibili confluenze tra il mondo dei liberi ricercatori – se non vogliamo usare il termine di dilettanti – e quello emergente delle ricerche professionali… fino ad allora rimasti assolutamente estranei. Il Convegno Nazionale di Fotografia organizzato nel 1959, e l’avventura dei quaderni Dibattito inseriti nel mensile Foto Film tra il 1963 e il 65 – cui anche chi scrive fu partecipe – rappresentarono per Casiraghi il raccordo tra la propria attività artistica, e le idee che faticosamente si avviavano per fare uscire la cultura fotografica italiana dai suoi ritardi storici, dal suo provincialismo.
Ma Casiraghi – al contrario di altri fra noi come Antonio Arcari, Luigi Crocenzi o Italo Zannier che si andavano specializzando nelle vicende dell’immagine ottica – sapeva conservare una sorta di eclettismo culturale, che rappresentava anche la libertà, la naturalezza, le variazioni dei suoi interessi. Col vecchio amico architetto Giancarlo De Carlo segue le discussioni sul controverso destino urbanistico di Sesto S. Giovanni: questa sì una sconfitta per le amministrazioni di sinistra del dopoguerra, elette con maggioranze massicce e poi arrese ai modelli speculativi prevalenti in tutta Italia. Fotografa i soci delle cooperative edilizie in assemblea, e poi i traslochi nei nuovi alloggi, dove entreranno antichi mobili di famiglia, dalla essenziale povertà. Tranquillo inquadra anche un gregge di pecore (1958) drammaticamente ammassato sulle nere scorie delle lavorazioni metallurgiche Breda, raccolte fuori dallo stabilimento… E questa foto, pubblicata anche all’estero, diventerà un ricorrente contrappunto polemico, sui mensili specializzati, verso gli innumerevoli greggi bucolici, che avevano funestato mezzo secolo di salonismo. Le periferie ormai coincidenti di Sesto e di Milano gli offrono ulteriori occasioni di ripresa. Sequenze di slogan e invettive politiche sui muri delle fabbriche, case ‘di ringhiera’ semiabbandonate, operai in bicicletta nella foschia del mattino, pause di mensa , rassegnate manifestazioni sindacali, o al contrario Primi Maggio con nuclei familiari vestiti a festa. Tranquillo Casiraghi riserva inoltre un’attenzione costante anche alla vicenda artistica della propria città, ai pittori amici – non tutti affermati , ma tutti nel solco del realismo – che interpretano a loro modo spazi e condizione umana negli anni 60. Tranquillo produce un bel libro su Giuseppe Guerreschi (Quaderni di Imago, 1964) e ritrae Umberto Seveso, Giuliano Barbanti, Attilio Forgioli e altri; nei loro studi o in trasferta sui marciapiedi, col cavalletto o l’album degli schizzi. Tutti sembrano animati da un’ansia febbrile: l’interpretazione visiva come modello di possibile libertà – da parte dell’artista – verso le parole d’ordine obbligate, verso gli schemi politico-culturali di una sinistra in ritardo.
Questo doppio cammino polemico – che non sempre affiora compiutamente dalle fotografie – è però condotto da Tranquillo quasi con dolcezza. Non lo ricordiamo mai protagonista di scalate o complotti, né di diverbi accesi, scenate, rancori… che pure nell’ambiente non mancavano. D’altronde egli non appariva personalmente ambizioso, o afflitto da egocentrismo. Come chi scrive, aborriva concorsi a premio, classifiche, separazioni meritocratiche ‘in verticale’… anzichè confronti, accostamenti, analisi ‘orizzontali’. Ogni autore giovane gli sembrava degno di attenzione, ogni mostra aveva per lui qualcosa da salvare. E salvava sempre le buone intenzioni.
Sempre negli anni 60, Tranquillo, come molti autori della sua generazione, a cominciare da Pietro Donzelli, trova nella ‘Gente del Po’ un possibile antidoto narrativo all’alienazione metropolitana. Barcaioli, pescatori, tagliaboschi, ricompaiono come fratelli dei personaggi sestesi ripresi alla Torretta. Con la stessa fierezza antica, ultimi protagonisti di un personalissimo stile fisico (e psicologico ) … prima che la TV porti ad una catastrofica omologazione di corpi e volti. E allo stesso modo il recupero iconico avviene anche per i gesti, ormai perduti, del lavoro artigianale. O per i profili delle barche, dei casoni, dei campanili… riflessi da un’acqua allora abbondante, e capace di tragiche piene come quelle che si ripeterono dal 1951 in poi.
Negli stessi anni, e nei successivi, egli va poi realizzando un’altra sequenza importante – e per noi di grande valenza poetica – quella sulle venditrici di fiori… allora presenti agli incroci di molte arterie urbane. La fioraia – nel contrasto tra il valore simbolico della ‘merce’ venduta ed un atteggiamento mai festoso – può essere valutata come metafora di tutta l’opera del nostro autore. Non solo per il puntuale recupero della possibile poesia nella povertà, ma per l’omaggio a valori nascosti sotto la pelle del documento, e per l’implicito invito ad una lettura alternativa di tutte le immagini.
Se le fioraie (in bianconero !) ripropongono un tema storico caro ai pittori dell’Ottocento, altri temi, e soggetti diversissimi, ci indicheranno in seguito la misura complessa delle sue ricerche. Sesto si sta trasformando. Breda, Falck, Marelli e cento altri stabilimenti hanno dislocato in altre zone la loro produzione, ed hanno dismesso il loro ruolo metropolitano. Ora i figli degli operai sognano un posto nel paradiso del terziario, che comincia a sorgere sulle macerie dell’industria. E anche la vita del nostro autore sta mutando. Dalla metà degli anni 70 Tranquillo comincia a viaggiare in Europa, soffermandosi in diverse occasioni sui classici scenari turistici e monumentali della Francia, o di Londra. Le sue ‘escursioni visive’ continueranno dopo l’83, anno del suo pensionamento (… ma manterrà una consulenza con i laboratori di ricerca del Politecnico di Milano, e continuerà a sviluppare una personale passione intellettuale per la Matematica). Riprendendo a Roma i funerali di Enrico Berlinguer (1984) anche Tranquillo finirà col separarsi, a sessant’anni, dal suo impegno di militante dell’immagine. Nei volti disperati e assorti del popolo della sinistra, oggi noi possiamo leggere il presagio di un declino, o meglio di una epocale trasformazione dei movimenti di massa. Tranquillo insomma ferma nel suo mirino, attraverso la morte di un leader amatissimo, anche la morte del maggior partito-guida, e di tutta una concezione fideistica della politica.
Il nostro autore per altro continua a prendere atto che la testimonianza fotografica, la personale interpretazione critico-visiva delle vicende che attraversiamo, non può né deve mai fermarsi. Per molti fotografi come lui è un secondo, parallelo modo di vivere. Nell’ultimo decennio della sua produzione, fina alla metà degli anni 90, Tranquillo viaggia anche a Strasburgo, ancora a Londra, a Chicago. Come già era avvenuto alle Biennali di Venezia, anche qui lo interessa il rapporto di ‘fruizione’ dell’uomo d’oggi nei confronti dei monumenti storici e delle opere d’arte, sopratutto di quelle contenute nello spazio di un museo. In certo senso, la libertà e la varietà di atteggiamento dei visitatori – dai più piccoli agli anziani – a contatto coi capolavori esposti, diventa la rivendicazione di un libero giudizio possibile in ognuno di noi. Ogni nostro gesto, o modo di guardare, rappresenta una inconscia posizione ‘critica’. Stranamente, a conclusione della sua parabola creativa, Tranquillo Casiraghi sembra aprirci anche i toni dell’ironia. Di tutta l’arte, degli spazi storici che la contengono – sembra dirci nelle fotografie – noi dovremmo impadronirci senza paura. Ognuno reagisca come può o come vuole: l’arte è di tutti, ed è un territorio da percorrere con modelli di reazione sempre diversi, e in ogni direzione… ma sempre in libertà. Così quello di Tranquillo diventa una sorta di messaggio estremo che vorremmo fare anche nostro. E per il quale vorremmo continuare ad essergli grati.

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