testi anni 70

L’occhio come mestiere

Introduzione al volume “L’occhio come mestiere. Fotografie di Gianni Berengo Gardin”, a cura di Cesare Colombo, Il Diaframma, Milano 1970

Caro Gianni, l’altra sera come ricordi abbiamo messo in terra i fogli del menabò pronti per la tipografia, pagina per pagina, con gli stamponi dei clichés incollati sopra, forse più intensi della stampa definitiva. Un serpente di carta era steso sul pavimento dello studio; l’occhio percorreva orizzontalmente la successione delle pagine, saltando il momento inerte dello sfogliare. E’ questa una classica occasione di verifica, nel lavoro grafico, dove si creano condizioni-limite di lettura della sequenza di immagini, e dove ogni intoppo narrativo salta subito all’occhio; normalmente la doppia pagina resiste come fatto compositivo «interno», mentre occorre invece rettificare le successioni, cioè quella specie di logica non assoluta che si vuol dare al discorso ottico, come spianare meglio un sentiero al lettore.
La massa di pagine sul pavimento, oltre l’opportunità di queste correzioni «sintattiche», serviva a riflettere sul significato globale che tutta la proposta-libro avrebbe potuto assumere. Per te, un momento fondamentale di meditazione dall’alto della montagna di riprese accumulate in quindici anni di lavoro; per chi ti conosce solo attraverso gruppi limitati di immagini, la possibilità di entrare nel labirinto che definiamo (in modo malfermo) «la personalità» o «il personale mondo espressivo»… e la possibilità di percorrerne le pareti, ricavando una finale conclusione a livello emotivo o di conoscenza. Cosa pensa Gianni, cosa vuole, da che parte sta, dov’è cambiato, dove sta andando: se non si ha questo tipo di spiegazioni da dare, è inutile stampare un libro e metterlo in vendita. C’è già in giro una marea di roba illustrata, tutti ti tirano per la manica come a proporti dei fotogrammi piccanti, ma poi ogni immagine appare velata, accartocciata, tagliuzzata, macchiata di ermetismi. lo ti conosco credo da quattordici anni: a Venezia non resistevi nel tuo negozio di vetri «artistici », mi ricordo che scendevi di corsa il Ponte dei Dai e chiedevi al commesso di Foto Record se era arrivata Camera, la rivista che negli anni Cinquanta restò un tramite fondamentale di conoscenza verso la fotografia americana, inglese, francese… cioè verso i moduli espressivi che più ci erano cari, tesi in una dura indagine della commedia umana, con motivazioni e scopi collegati alle necessità documentarie del reportage giornalistico. Cartier-Bresson, Haas e Smith, Brassaï, Boubat, Capa, Klein: ne discutevamo sulla piazzetta con Paolo Monti, o Romeo Martinez (appunto redattore di Camera) che veniva ad organizzare le Biennali fotografiche per l’Ente Turismo veneziano, ma ahimè attorno c’era il mondo irritante delle orchestrine, e delle comitive coi falsi cappelli da gondoliere. Noi stessi avevamo un gelato; tornando a Milano sull’autostrada io pensavo con rabbia al destino provinciale della nostra cultura fotografica – stretta sui fianchi dall’accademia dei letterati e dalla retorica dei nostri sguaiati fìlm dialettali di gran successo – e al dramma di trovarsi a credere, a produrre e a proporre un tipo di immagine assolutamente anomala per la ricettività «mistificata» dei lettori di rotocalco.
Mi ricordo che venivo anche nella tua casa al Lido: avevi le coppe fotoamatoriali esposte, ma lo sfogo della competizione coi trenta per quaranta ti era passato, già cominciavi a lavorare per architetti, produttori di dignitosi oggetti in vetro, mobilieri padovani. Le seggiole sul bagnasciuga, cui forse oggi ripensi con disprezzo, si affiancavano al lungo abbraccio visivo che da anni conducevi verso Venezia, la tua città. E le prime vere lacerazioni – il pane da una parte e le inclinazioni poetiche dall’altro, in ore diverse ma con gli stessi strumenti – furono il segnale nei primi anni sessanta della fondamentale scelta che oggi si impone a chiunque abbia un nucleo qualsiasi di idee da proporre: diventare professionista, nel senso di collegare all’attività scelta i motivi stessi della propria esistenza materiale, e rifiutare ogni transfert occasionale, ogni domenicale travaso delle ambizioni. Il bastoncino del gelato volò nel Canale, e venne sospeso l’abbonamento al vaporetto Acnil: mi ricordo che la Titta e i bambini erano rimasti, « per precauzione» a Venezia quando tu avevi affittato una stanza a Milano dietro via Settembrini. E proprio mentre usciva « Venise des Saisons» (senz’altro il fotolibro di maggiore violenza emotiva e di più precisa indagine «interiore» che sia stato dedicato alla città) tu stavi cominciando la routine maledetta dello studio pubblicità-industria-architettura. Quei dannati che telefonano sempre per le ristampe. Portare i provini ai direttori artistici delle agenzie che ti segnano l’inquadratura col pennarello scrivendo «allungare il fondo bianco» o «più brillante e più plastico». Litigare per il rimborso spese, non mi vorrà dire che in autostrada fa sei chilometri con un litro, cos’ha, una Ferrari. Accettare la beffa: caro Berengo, formidabile la sua Venise, ma noi abbiamo bisogno, come dire, più sofisticazione, cioè i modelli antipiega dovrebbero essere ambientati nelle ville sul Brenta.
E siamo al nocciolo. E’ proprio qui a Milano che hai resistito, è proprio qui che hai deciso di combattere, come pochissimi, nella doppia trincea. L’umiltà apparente del servizio verso le grosse unità industriali e pubblicitarie, verso i mostri del sistema ai quali conviene portare un certo numero di vassoi in modo da campare con le briciole (caro Berengo, questi prezzi li paghiamo solo a lei). Dal lato opposto, la resistenza «civile» combattuta sempre con la fotocamera, che consiste nel documentare e offrire alla stampa e alle organizzazioni più progressiste tutti gli argomenti off, che non porteranno mai guadagno. Si aiuta da Italia Nostra alla rivista di Lanfranco, ai giornali studenteschi, alle associazioni per riformare le cure psichiatriche, alle biblioteche comunali dal magro bilancio, a tutti i singoli e gruppi che combattono – su un’area ormai estesissima – delle battaglie di democrazia e di cultura… ma che si oppongono a interessi e poteri speculativi esistenti e quindi non dispongono di soldi.
Ecco, Gianni, questo libro che adesso è pronto potrà forse giovarti in qualche misura come strumento promozionale per futuri lavori di fotogiornalismo. Ma il suo significato essenziale consiste, io credo, nella testimonianza di un continuo impegno «alternativo» quale oggi si richiede a tutti i professionisti più coscienti. L’impegno alternativo, naturalmente, per te e per altri fotografi, non è solo di tipo politico o civile. Quando sei andato a Monaco o a New York il tuo discorso creativo è risultato più ambiguo e complesso: le tue istintive capacità di sintesi ti hanno fatto scegliere momenti, visi, azioni, che si possono sì decifrare su un piano di cultura storica, ma che contengono anche dei richiami ineffabili, di specie ancora oscura, che arrivano con silenziosa forza e di cui, io almeno, non so dare spiegazione. D’altra parte la fotografia è visione, è struttura-apparenza; la copia tace i retroscena dell’azione e noi non possiamo pretendere che ogni millimetro quadrato del tuo fotogramma ci dia indizi sicuri. L’impegno del fotografo sta anche nell’esplorazione di certe «terminazioni nervose» che esistono nelle immagini: l’apertura di nuove frontiere al di là dei significati di convenzione, lo stimolo (davvero rivoluzionario) a non accontentarsi di scontate simbologie. Anche questa è una battaglia d’avanguardia: dopo che per mesi hai fatto riprese «dimostrative» (macchine, sculture, panorami di città) secondo le preordinate tesi del committente, tu Gianni vai a New York e riporti uno scolaro che cammina con maschera di demonio. Il richiamo di quella foto – che ho scelto a caso: potevo dire gli autocarri a Leningrado, gli hippies, la bambina a piazzale Michelangelo – sta nella perentoria forza con cui ci costringi ad aprirci, a svegliarci da un sonno visuale, che diventa anche convenzione di idee, conformismo di interessi, e alla fine complicità verso chi tende a farci assopire ancor più. Come ti ho detto prima, non riesco veramente a capire il senso di quelle immagini; ma capisco che chi le scatta e le propone mi da una mano per aver più coraggio, negli occhi e nella mente. Sono passati altri anni: hai un nuovo studio in via Lamarmora, con l’amico Giancarlo Scalfati, e ti rammarichi di non utilizzare abbastanza la sala di posa. Il tuo lavoro oggi è quasi tutto di reportage, sulla realtà, sia pure quella un po’ edulcorata dell’editoria turistica o degli uffici di public relations. La macchina colossale dei consumi, delle comunicazioni di massa, dei bombardamenti visivi ci travolge ogni giorno di più in questa città sprezzante e inospitale. Abbiamo sempre più bisogno di soldi, ma non per megalomania o vizi inconfessabili (ci conosciamo i bilanci, Gianni, entrambi abbiamo medie famiglie e medie cilindrate, le nostre mogli non ci frustrano certo con le ambizioni borghesi, anzi ci aiutano, e i bambini per ora non desiderano che tricicli o impermeabili da cinquemilanovecento). Dobbiamo semplicemente sopravvivere, e amiamo quel comfort minimo che ci ripaga dai fallimenti, che arrivano ogni volta che osiamo troppo.
Negli anni venturi, la misura dell’impegno si verificherà sempre più nella correttezza degli obbiettivi di lavoro alternativo a quello che ci dà da vivere; dovrai, dovremo precisare il tiro, lavorare per gruppi e giornali più definiti, e i cui programmi di progresso civile accolgano più dignitosamente dei messaggi ottici. Non ti farai fregare dalle didascalie, non permetterai che ti rovistino genericamente nell’archivio, parteciperai all’elaborazione in équipe dei messaggi. Avrai insomma due occhi come mestiere, uno da strizzare al cliente, mentre sarà l’altro quello più vigile e aperto.
Con massima energia ci si dedicherà anche all’azione «culturale» nell’ambiente fotografico: disilludere i giovani assistenti che sognano la fotografia di moda, nei convegni e sulle riviste combattere contro le false avanguardie che credono di rinnovare il linguaggio evitando la messa a fuoco o stampando «in negativo»; deridere chi crede all’ «arte dell’obiettivo», alle personali con cornice (e vernice), alla sregolatezza geniale, alla professione intesa come arrampicata mondana. Aiutare invece tutte le azioni sindacali, anche all’umile livello delle associazioni artigiane della nostra categoria; impegnarsi nell’insegnamento, dove le scuole professionali significhino anche crescita di consapevolezza nel ragazzo allievo; esprimere la nostra solidarietà ogni volta che ai danni di colleghi dipendenti da giornali, agenzie, aziende editoriali, si verifichino attacchi o menomazioni dell’autonomia operativa. Adesso mi rendo conto che questi discorsi non rientrano con precisione nei concetti introduttivi alle tue fotografie raccolte nel libro. Ma mai come oggi è difficile scindere la posizione «ideologica» del fotografo dai modi del suo accostamento ai soggetti, e dal finale risultato in immagini. E senza spiegare questo delicato momento di transizione che le nostre idee attraversano, credo sia inutile additare al lettore le sequenze «Morire di classe» ad esempio, o «I mesi della rabbia».
Quando torni dalla trasferta per il Touring Club, troverai le bozze di questa nota introduttiva. Sono fiducioso che non ci saranno grosse divergenze. Arrivederci.
Cesare, 10 giugno 1970

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