testi anni 80

Il business trasformato

in “La Grande Fiera. Fotografie di Gabriele Basilico e Gianni Berengo Gardin”,  Edizioni Fiera Milano, Milano 1985

 

Gianni ha passato i cinquanta, ma il suo corpo minuto non ne risente troppo. Da decenni ha gli stessi giubbetti, pochi capelli, piccoli occhi da gnomo: si aggira nella foresta delle immagini (dei soggetti che ancora non sono immagini) con tre o quattro camere appese, che raramente si urtano, con diversi obiettivi, ma con pellicola preferibilmente bianco-nero. Agli stupiti committenti che gli propongono i servizi dice che il colore è pacchiano e non rende a bassa luce. Sovrasviluppa un po’ i suoi rulli panerò, stampa da solo ingrandimenti 30/40 su “classica” carta non politenata. Come tutti quelli che hanno problemi di vista, preferisce usare i grandangolari, dove la messa a fuoco è più facile, i piani nitidi, le affollate scene della vita più drammatiche, anche nel senso di più divertenti.

Gabriele mi sembra sempre più alto, quasi gigantesco. Le sue sopracciglia e palpebre pesanti scrutano per ore il variare del rapporto fra sole e ombra: come una grande lucertola immobile (ma con l’impermeabile) solo lui sa quando chiudere la fase di appostamento. Gioca lunghe partite con la luce e quando piega il cavalletto si capisce che ha fatto le sue mosse: ma non sa se ha vinto, se non dopo lo sviluppo, quando va al laboratorio a vedere i grandi fotogrammi sul visore, col cielo di quel blu.

Grande amico di Gianni – con un po’ d’anni in meno, da eliminare rivalità o invidia – passeggia con lui alla ricerca di obiettivi seminuovi, di piccoli fotogadgets feticistici, mescolando continuamente nei discorsi la tecnica più raffinata e gli sconfinati valori delle immagini. Le sue, e quelle di pochi intimi. Come Eurialo e Niso, i due si cercano di continuo, si danno coraggio con lunghe interurbane, dove gli scambi mor­bosi sull’immagine vengono interrotti da qualche liberatoria battuta goliardica.

Gianni ama moltissimo le sue Nikon e Leica di cui avvita qualche accessorio allentato, vernicia le ammaccature, copre con adesivo nero le cromature. Però fa notare che le sue imma­gini non rivelano nessuna complicazione nella tecnica di ripresa. Gli strumenti devono servire con semplicità e imme­diatezza le intuizioni, o scoperte visive, che il fluido della vita ti provoca davanti. Anni fa, discutendo con un suo caro amico fotoamatore — davanti alla bellezza quasi stucchevole delle colline venete – proprio sull’inopportunità di idolatrare gli strumenti, ebbe un improvviso gesto di provocazione. Annaffiò… organicamente il teleobiettivo, nella soave luce del tramonto, davanti all’inorridito collega. In albergo l’ho poi ripulito con una soluzione di alcool e acqua ossigenata al 12 per cento.

Gabriele è stato visto col suo cavalletto mentre cadevano i capannoni ex Alfa nell’area del Portello, mitico spazio dell’industria milanese, dove utopie aziendali si erano intrecciate per decenni con lotte sindacali. Domani sarà un parcheggio per la Fiera, dopodomani, il terziario, chissà. Anche alla Bicocca, Gabriele aspetta la luce, davanti all’obsoleto impero Pirelli. L’architettura della produzione non ha nulla da conservare e la rendita fondiaria non le permette neanche di diventare archeologia. Gabriele è architetto e lo sa. Davanti a lui le storiche tracce di una città che non ha mai saputo dare di sé un consapevole ritratto spaziale si sbriciolano, si corrodono, si modificano con sopralzi, aggiunte, parziali demolizioni. Non si tratta più di identificare la qualità figurativa, non c’è valore estetico di pro­getto. A suo modo è lo stesso Gabriele che offre una sublimazione ottica a questi volumi: ne insegue – sempre più stressato – gli autonomi valori strutturali e dà loro con l’inquadratura una possibile, triste grandezza.

Gianni cerca di nascondersi dietro l’angolo, dietro il cristallo scorrevole, dietro il manichino, il baracchino, il cespuglio decorativo. Ma è “storicamente” inutile, ormai: la consapevo­lezza di massa che esistono gli uomini d’immagine, i cameraman, i reporter, rende assurdo il mimetismo. Anzi si presen­tano, consapevoli, tutti i subalterni che ieri erano ripresi di spalle o che addirittura contrastavano agli operatori il lavoro di ripresa. Una sorta di compiacimento, al limite dell’esibizioni­smo, invade ormai i valletti di mezza età, le combattive donne della pulizia, metronotte, allestitori, portaborse. Come Gabriele sublima le coperture di vetrocemento, Gianni porta alla ribalta e dà un volto agli anonimi protagonisti dei servizi tecnici. Se avesse un registratore pocket si sarebbero sentiti calcoli sugli straordinari, complicate strategie sui turni, apprensioni, chiamate, ironici sospiri e allusioni al vertice. E anche: aspetti che mi tolgo gli occhiali, scusi è di Canale 5?, adesso le chiamo io una cassiera sexy, altro che questa. Gli dica di fare il tip tap, si vede bene il marchio?, è autorizzato?, all’ascensore c’è il più vecchio, lo scatti che l’anno venturo va in pensione.

Gabriele ha sfogliato riviste, memorizzato fotolibri, percorso mostre. I colleghi che si sono laureati con lui al Politecnico, naufraghi del post-moderno, l’hanno coinvolto nel recupero dei maestri degli anni 20 e 30, tipo Muzio o Andreani. In quegli anni anche gli studi fotografici, che erano Crimella o Vasari o Anderson, contribuivano a dare con le loro immagini un’atmosfera rarefatta (o “metafisica”) alle prospettive. Luci oblique, piccoli passanti, auto in sosta, pose con il ciclo filtrato e nuvole sfilacciate.
Le foto odierne di Gabriele risentono anche di questa dimensione culturale, che nella fotografia si prolungò fino al secondo dopo-guerra, agli anni 50. La rivista Ferrania pubblicò intelligenti inquadrature di fotoamatori come Vittorio Ronconi, Stile Industria propose Paolo Monti, Domus assunse Giorgio Casali: in alcuni casi proprio il Palazzo delle Nazioni in Fiera, i tubi dei Padiglioni Italsider di Baldessari, le facciate progettate dai fratelli Castiglioni per la Montecatini, i pannelli Rai di Erberto Carboni furono pretesto per una mistica dei volumi che ora Gabriele recupera con la sua Hasselblad o la sua Sinar. Nella sua Fiera ’85 è presente e per così dire “storicizzata” anche una lunga stagione culturale che vide il Progetto subordinare o annientare l’Uomo.


Gianni continua a percorrere i viali della Fiera, a entrare su pavimenti lucidi dove si aprono le casse, dove ogni espositore presenta il proprio campionario secondo un rituale di promozione che è antico quanto il commercio stesso. Senza averlo programmato, Gianni registra un delicato, decisivo passaggio: dalla presentazione di oggetti, dall’imbonimento, dall’orgoglio del produttore che esibisce il catalogo… alla comunicazione per immagini, per parole, per programmi. L’informatica toglie valore alla presenza fisica del prodotto e d’altronde questo è sempre più mutevole, flessibile, adatto e adattabile al destinatario. Sagome scontornate di cartone, manichini, confezioni e convincenti sorrisi, assaggi, cartoline da compilare, stupefatti palpeggiamenti… stanno regredendo nell’archivio della memoria, sono alle ultime scene prima che cada il sipario sulla vecchia Campionaria. Gianni ci ricorda che la commedia non è ancora finita. Alcuni interpreti che ci offre fulmineamente nei suoi fotogrammi ripetono curiosamente i gesti del giovane De Sica che corteggia la bella standista ne Gli uomini che mascalzoni di Camerini, 1932. Prima che tutto avvenga via cavo c’è ancora spazio per l’ironia degli accostamenti, i tic, la stanchezza ai piedi, l’intrigante mimetismo di occhiate e abbracci tra la folla che è “classicamente” anonima.

Gabriele sarebbe perfetto come consulente visivo per qualsiasi produzione cine o televisiva ambientata tra le quinte della Milano d’oggi. Nella sua fiera deserta, prima e dopo che vi irrompano gli operatori di settore mi sembra che potrebbero muoversi – come su un grande scenario di cemento – gli attori di diverse, possibili storie.
Fantascienza e fantaurbanistica (da Metropoli! ad Alphaville): dietro i serramenti polverosi si aggirano e si organizzano i sopravvissuti, che addentano le ultime brioches sigillate rimaste sotto i banchi dei bar dopo la catastrofe. Gialli d’azione: con motociclette che volano dalle balaustre dei grandi padiglioni, raffiche lungo i viali nebbiosi, bionde receptionist in ostaggio, corpi insanguinati depositati in silenzio dalle scale mobili all’ultimo piano. Musical metropolitani: con danzatori acrobatici che accendono spot nella notte, voli sulle scale antincendi, rapidi passi tra gru e bulldozer.
Fumettose storie d’amore fra adolescenti: che si lasciano, si cercano e si ritrovano, si amano sulle poltrone di velluto del Centro Congressi. E ancora le sale Bizzozero e Puricelli diventano dei dancing, con laser colorati che seguono i protagonisti. Irrompono elicotteri, giganteschi videogames si accendono sulle facciate, nei montacarichi i metronotte respingono gruppi di elettricisti ubriachi. Insomma nella Grande Fiera di Milano, il business potrebbe trasformarsi nel più Grande Spettacolo del Mondo.

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