testi anni 90

Toni Nicolini. La realtà e la leggerezza 

in “Sono spenti i plotter? I giovani, l’Università, la grande azienda, il computer e i dintorni. Fotografie 1986-1992“,  Direzione Comunicazioni IBM, 1992 

Ho conosciuto Toni Nicolini alla fine degli anni Cinquanta. Come me, aveva scelto di lasciare l’università per fare il fotografo professionista. Milano aveva tempi lunghi, allora. Si andava dai clienti a portare il lavoro fatto, col tram o con la Lambretta. Toni aveva un piccolo studio in via Rossini; la sala posa al piano terra in fondo a un cortile antico, la camera oscura al secondo piano, con accanto un mini alloggio da single. Toni fotografava di continuo delle elaborate composizioni di prodotti farmaceutici; suonava il telefono di sopra e lui correva ansimando a rispondere. Prima di tornare giù guardava l’armadio con le cravatte appese, di pura seta o di lanetta scozzese, e piegava la testa. Sono belle, ma mi mancano le occasioni per metterle. Nel gruppo di amici si mitizzava la sua amarezza tranquilla, quasi serena. Del servizio militare, a Conegliano Veneto, rievocava le difficili istantanee rubate in cucina, con le reclute che rovesciavano grigi pentoloni di pasta, emergendo nel vapore. Quand’ero di guardia al freddo mi perseguitava l’immagine delle spider ferme alla curva coi ragazzi che portavano a sciare le morose in maglione rosso; io facevo la sentinella, i dannati seguivano gli “itinerari romantici di Grazia “. Un giorno Toni mi raccontò di essere entrato per caso nella saletta riservata di un ristorante di provincia. Un giovane uomo dai capelli lunghissimi cenava con dodici commensali che sembravano riverirlo, come discepoli, e lo chiamavano maestro. Con la complicità di un cameriere, nell’ansietà di assistere a un episodio irripetibile, aveva scattato alcuni fotogrammi. Tornato velocemente in studio aveva sviluppato con attenzione particolare, usando un rivelatore freschissimo. Niente, una pellicola di assoluta trasparenza. Mi tortura il dubbio: era davvero un evento soprannaturale oppure ho dimenticato il tappo sull’obiettivo della Leica? Avevamo allora la mania dei fotoracconti, immagini in sequenza “poetica”. Toni raccontò la storia di una bambina (la figlia della portinaia) cui il vento ruba per scherzo il pallone; lo scherzo prosegue in una tempesta sul bosco, con un ritorno del pallone a lieto fine. Ma in seguito l’infanzia venne raccontata con fotogrammi di rabbia: Toni pedinò i nipotini, diabolici gemelli che si compiacevano nel puntare revolver ad acqua alla tempia delle galline. A metà degli anni Sessanta ci trovammo a insegnare insieme le tecniche fotografiche ai giovanissimi apprendisti della Società Umanitaria. Anticipando le contestazioni degli anni seguenti, alcuni studenti non si facevano mai vedere alle lezioni. E durante un atroce consiglio degli insegnanti, a gennaio, Toni propose ironicamente di assegnare all’assenteista Matteo G. il premio Nadar “Una vita per la fotografia”. Incontrai Matteo per caso mentre fumava ai giardinetti della Guastalla e gli raccontai la cosa. Ascoltò con interesse, concludendo: “Mi piace il professor Nicolini. E’ flemmatico”. Ma a Nicolini trentenne non furono certo i furori sessantottini a far scoprire che il problema di fondo della fotografia (e insieme la misura della creatività personale dei fotografi) sta nell’approccio ai soggetti. Dove muoversi, nell’universo sociale e materico che ci circonda appena usciamo di casa, o anche se in casa ci restiamo, o se ci affacciamo alla finestra? Appunto il famoso dilemma, specchi o finestre. Riflettere sul proprio ombelico, fino a trasformarlo nel vortice raffinato di tutte le sensazioni, non solo visive, oppure affacciarsi alla vita degli altri e creare un ponte per la scoperta di valori comuni, forse di idee comuni? Nicolini scoprì il Sud. La Sicilia (ora dimenticata, o rimossa) di Danilo Dolci, puritano sociologo a Partinico, con l’utopia di un intervento su modelli culturali scandinavi. Figuriamoci. La Calabria, al seguito della frenesia pittorica di Ernesto Treccani: due strumenti in amichevole confronto. Forse furono le centinaia di muretti, attrezzi di braccianti, muli in salita, contorte mani con olive, e ovunque bambini, sui letti, sull’erba, sui banchi… a costringere Toni a fare i conti con l’universo duro delle sembianze: le cortecce della realtà, che non si modellano certo secondo il pre-giudizio che abbiamo in testa.
Così Nicolini, attraverso memorabili sequenze (per esempio il racconto del flusso migratorio “Da Melissa a Valenza”, da contadini ad artigiani nella ricca cittadina dell’oro), prende atto della natura multiforme, o ambigua, dell’immagine ottica. Proprio mentre ci si accanisce a capire, a sondare, a descrivere il soggetto questo ricompare sui fotogrammi in modi imprevisti, secondo l’azzardo e le sorprese della vita stessa. Proprio nella scelta della fotografia narrativa o di reportage – termine un po’ fasullo questo, perché non fu certo da noi che i giornali favorirono l’impegno dei servizi d’autore – sta anche, per Toni e per altri suoi colleghi, il tentativo di piegarsi a seguire con implacabile “freddezza” la grande commedia del mondo. Artisti, e insieme scienziati ricercatori, il loro coinvolgimento non deve mai oltrepassare la soglia della nitidezza di ripresa, della posizione “fisica” funzionale, e anzi deve piegarsi ad accettare le ragioni tecniche del linguaggio fotografico: queste macchine, quelle pellicole, quelle luci, quel mimetismo, quella serie collaudata di punti di vista. La lente puntata sul circuito, che vediamo nell’immagine 131, è forse l’eco di un lontano manifesto di intenzioni sottoscritto dal fotografo Toni Nicolini. Dico questo perché la conoscenza altrettanto lontana che ho di lui mi permette di capire, credo, quanto la sua complessiva personalità, la logica (o se vogliamo i circuiti) del suo carattere guidino il suo modo di essere fotografo, in qualche modo protagonista e suggeritore di frammenti della storia. Ed è proprio la coincidenza dei due percorsi, quello esistenziale e quello dell’espressione fotografica, che ci consente di valutare l’opera di Nicolini negli ultimi due decenni, quelli della maturità, ove si collocano le sue vicende professionali più importanti. Dal 1970 al 1990 Toni Nicolini realizza per il Touring Club Italiano diversi fotolibri dedicati a Venezia o al Vaticano, a regioni come l’Umbria, il Friuli o la Calabria, a intere nazioni come l’Austria, il Belgio, l’Olanda, il Portogallo. La vicenda foto-editoriale del TCI e la particolare formula produttiva delle monografie “Attraverso l’Italia” e “Attraverso l’Europa” – che prevedeva mesi interi di viaggio della simbiotica coppia formata da fotografo e redattore – sono attualmente sospese. Ma esse hanno segnato per i protagonisti (e per l’eccezionale, costante udienza di migliaia di soci “lettori” del Touring) una fondamentale esperienza di cultura visiva. Nicolini vi ha inoltre affiancato una produzione continua di opere monografiche sul paesaggio, sull’architettura monumentale, sui musei, anche per altri editori. Ma soprattutto nelle monografie Touring si è impegnata la sua capacità di estendere l’efficacia di un’indagine sociale – senza banalità convenzionali – alla profondità, o solennità, di una narrazione dello spazio e del tempo. Cioè architettura oltre alle persone, vestigia e testimonianze di remote presenze dell’uomo, e gli odierni labili segni nel territorio. Stavolta, alle difficoltà di ordine descrittivo (nulla è complesso come rendere in modo chiaro la profondità, la progressione dei piani, in un’immagine bidimensionale) si aggiunge un dilemma che Toni sembra accogliere in misura particolare, come una sfida del proprio mestiere. È cioè possibile far sentire, evidenziando alcuni indizi del presente, anche i dati trascorsi, le tappe del tempo, il fiume della storia? Proprio perché la natura culturale del lavoro per il Touring l’ha obbligato a fare i conti con la continuità degli eventi storici materializzati in un preciso spazio-territorio, Nicolini ha finito col relativizzare il suo impegno di fotografo sociale; e col dimensionare le sue ambizioni di cittadino (o di uomo “politico”) a favore appunto di una riflessione temporale, storicistica. E questa posizione ci sembra ben presente anche nel lungo lavoro per la IBM, sull’impiego dei sistemi informatici e, in generale, sul rapporto uomo-computer. Nella sequenza che questo fotolibro presenta, ricorre di continuo un rapporto che è – oggi – di tipo fisico tra gli studenti e gli ambienti, i palazzi, le aule dell’università; ma che è anche un continuo confronto storico tra le vicende odierne e quelle che gli stessi palazzi, le città, nei loro centri di sviluppo civile, hanno vissuto… spesso con drammatici svolgimenti. I giovani sono oggi, è vero, la misura fisica che Toni offre quale parametro della grandiosità degli ambienti. Ma sono anche il pretesto per un raffronto con i segni rivelatori del potere trascorso, i simboli (fregi, statue, iscrizioni) di vicende che richiamano a loro volta una opposta concezione dello studio, dei modi e dei tempi di apprendimento. Nicolini mette qui a frutto la sua sapienza compositiva. Accosta le forme d’ombra del passato all’esuberanza dei percorsi giovanili d’oggi, ma tenta in realtà di suggerirci delle riflessioni sullo scorrere stesso del tempo in rapporto alle metodologie formative. I vecchi erbari di Palermo sono la metafora visiva (in quali forme!) di una remota, elitaria, trascrizione di dati scientifici: proprio ciò che l’informatica vuole trasformare, e soppiantare. Ma fuori dalle finestre e là in fondo, nelle serre, le piante tuttora rigogliose suggeriscono una perennità naturale e assieme un possibile modo rinnovato di far parlare le fotografie. Potrebbero allora riaccendersi, insieme ai plotter, anche le nostre fantasie di lettori di immagini in un momento che sembra vedere – soprattutto nel dilagare della narcosi da TV – una sconfitta delle nostre autonome capacità di decifrazione, o “interpretazione”, del visibile? Ma nella serie delle foto di Toni che sono qui raccolte, il rapporto tra il computer e l’utente è denso di altre implicazioni e pare illuminarsi di intuizioni fulminee. Anzitutto la posizione fisica obbligata davanti alla tastiera rende costante lo spazio di questo dialogo, di questa muta comunicazione tra i due protagonisti. Le inquadrature di Nicolini ripetono in silenzio, e senza mostrarcela concretamente, una specie di attenta sospensione, scandita nitidamente sui volti, sempre messi a fuoco a breve distanza. Il computer offre quindi a Toni il pretesto per ricollegarsi a un tema classico della fotografia (ma anche del cinema e della letteratura) cioè quello della solitudine urbana; e delle residue possibilità di intavolare rapporti di nuovo linguaggio con le macchine, con gli utensili che seguono di continuo i nostri movimenti quotidiani. Pensiamo ai trasferimenti all’area telematica degli approcci d’amore, alla sostituzione dell’incontro con un messaggio e, in genere, al passaggio di tutta un’area di attività fisica ed emozionale alla sua simulazione, o semplice comunicazione (dai videogiochi, alle cassette culturali, ai notiziari di servizi via etere o via cavo…). La solitudine urbana può d’altronde costituire la premessa per forme future di socializzazione basate proprio sui messaggi dell’informatica, un possibile umanesimo “elettronico” con forme oggi non ancora descrivibili, ma non per questo desolato o alienante. Interessante è anche la predilezione di Toni Nicolini a mostrare il volto dell’utente, assieme al retro della “macchina”. Noi non sappiamo, non leggiamo (né sarebbe tecnicamente possibile) che cosa appare sui video, ma conosciamo una serie di atteggiamenti di domanda, di attesa, di riflessione verso il video stesso, e subito insieme un’altra più breve serie di reazioni collettive, interpersonali, quando il rapporto col computer viene gestito da un gruppo di persone, nel nostro caso gli studenti universitari. Anche stavolta le foto di Toni ci suggeriscono una dualità di atteggiamenti. Da un lato i giovani (quelli arrivati in bicicletta, abbiamo visto, dopo affettuosi saluti e tazzine di latte macchiato) che ci sembrano i più atoni, rigidi, letteralmente agganciati al video; tasti e mouse sembrano le uniche allettanti proposte rivolte dalla società adulta. Dal lato opposto insegnanti, tecnici di produzione che hanno invece riconquistato un’autonomia psicologica dal computer, ricuperano un atteggiamento naturale pur nella consapevolezza di essere, in quell’attimo, inquadrati da Nicolini. E lui quindi può anche offrirci i residui tic di una società non ancora “livellata” che riconosce i segnali quasi impercettibili di gerarchia, libertà, responsabilità, passività (eccetera). Soltanto che risulta molto più difficile captarne e offrirne i momenti visibili, cioè ricavarne delle foto. I centri di elaborazione dati col soffio dei condizionatori non sono certo come le piccole piazze della provincia italiana, palcoscenico di estroverse commedie. Ma in Toni la caduta di molte illusioni sociali, e culturali, sembra aver potenziato – come abbiamo già scritto – le doti residue di investigazione visiva. II disincanto dei giovani, la più rilassata attenzione dei capi e dei docenti, ricompongono davvero un plausibile scenario di questa nostra società di transizione, divisa tra naturalezza e gag mistificatorie. Gli spauracchi di Novedrate, nell’immagine 105. Nei sottopassi del grande Centro di Istruzione IBM, le vetrate che s’inoltrano tra siepi sempreverdi recano – stampate in serigrafia – minacciose sagome di rapaci in volo. Queste immagini bastano a tenere lontani i piccoli uccelli, evitando al loro volo spensierato un impatto mortale contro le lastre trasparenti. Subito dopo, un’altra fotografia a doppia pagina ci mostra, nello stesso parco, un gruppo di giovani reclute dell’informatica, che avanzano verso Toni coi loro freschi sorrisi. Non vi è in loro alcun presagio di impatto, né si profilano minacciose sagome deterrenti. Del resto, ci vorrebbe ben altro che un’immagine in controluce, fosse pur mostruosa, a fermarli. Ma poi andiamo, Toni non è un falco. E il suo fotolibro, disarmato ed essenziale, sembra ricordarci che la realtà è fatta anche di leggerezza.

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