testi anni 90

Un paese unico

in “Un paese unico. Italia, fotografie 1900-2000”, catalogo della mostra (Firenze, Palazzo Medici Riccardi, 24 settembre-2 novembre 1997; sedi varie), Alinari, Firenze 1997

L’inizio di una ricerca fotografica avviene sempre sotto il segno dell’ansietà. Migliaia di appunti, fotocopie, appelli alla memoria personale… che nessuna memoria di computer può, ahimè, sostituire. E la domanda di fondo che genera appunto dubbi, e inquietudine: sarà possibile tentare di ordinare secondo una linea “attuale” di coerenza narrativa, decine o centinaia di fotografie alla cui origine stanno motivazioni diversissime, in molti casi non più appurabili?
Se la filologia dell’immagine ha giustamente respinto da decenni il declamato valore “documentario” assoluto delle fotografie, è pur vero che ognuna di esse rappresenta la testimonianza di un rapporto vissuto tra il fotografo (o la camera) ed una dimensione fisica, strutturale, del mondo.
Raccontare con le fotografie significa quindi dare un’approssimata misura di collegamento ad immagini che sicuramente possiedono una valenza autonoma; accostarle e produrre una specie di antologia, sincronizzandole con le altre correnti di espressione visuale, che ci ridanno, o possono suggerirci, le chiavi insicure della storia.
Se tentiamo di esaminare le oscillazioni delle stile fotografico italiano nel nostro secolo – l’800 ne vede la nascita, com’è noto, e il lentissimo progredire della tecnologia – vedremo che non c’è alcun rapporto tra le mutazioni drammatiche di società e territorio, e la ‘lettura’ fotografica degli autori. Addirittura, ai primi decenni che pur sconvolsero l’assetto geo-politico del paese, corrisponde una produzione – e un’interpretazione critica – modellata sui canoni della pittura romantica. Il complesso di inferiorità dei fotografi verso le “belle arti” visive ritarda la scoperta di autonome forme narrative. Gli oggetti sono eterni pretesti per esercitazioni astoriche o se vogliamo antistoriche. Quindi l’oggetto dell’immagine – che è pur sempre esistito là, in quel momento – sembra tacere, serrato dietro le oscillazioni del gusto, dietro le opzioni vetero-culturali dei fotografi. Anche nell’umile fotografia applicata, l’opera subalterna di taluni operatori rimasti anonimi non sfugge alla scelta di “quella” inquadratura – tra le tante possibili – di “quella” sottolineata evocazione di un clima.
Così il nostro racconto sarà per forza sempre doppio: scoprendo paesaggi, uomini, oggetti, illuminerà con rispetto anche i gesti dell’interprete, nelle infinite varianti di atteggiamento, tra minimalismo e trionfalismo. Insomma, questa doppia comunicazione, intrecciata e spesso antitetica, costituirà il codice di lettura della nostra ricerca, il suo interesse e naturalmente i suoi limiti.
La copertura visiva di un secolo di vicende italiane, racchiusa nella sintesi “estrema” di poco meno di 250 immagini… può trasformarsi in una divertente (anche se ansiogena) scommessa. Resta il fatto che la densità crescente di immagini – a ritmo esponenziale – col procedere dei decenni, e le distruzioni continue dei materiali più anziani… non possono che squilibrare i modi dell’indagine.
Dividiamo con scolastica banalità il secolo in quattro periodi. Dall’inizio agli anni Venti; lungo il fascismo e la seconda guerra, fino alla Repubblica; dagli anni Cinquanta ai Settanta, con la crescita produttiva di una nazione; e poi la fine del secolo tra mutamenti socio-strutturali sempre più veloci.
Ora, come incrociare queste sommarie partizioni cronologiche con la miriade di temi visivi disponibili? L’ipotesi successiva è questa: che il destinatario della ricerca, l’utente di una mostra e di un foto-libro, sia condotto dentro il “labirinto Italia” partendo dall’ampiezza del territorio naturale…e via via attraverso l’antropizzazione progressiva, contatti le essenziali vicende evolutive della nostra società nel ‘900. La terra viene percorsa e coltivata. Crescono borghi e città. Nelle abitazioni si vive, e si lavora negli spazi della produzione, come in quelli del terziario. Si intrecciano via via le reti delle comunicazioni. Si scambia, si vende. Si mangia e si balla. Il tempo libero al mare, il turismo e il folclore sono altri tratti salienti del nostro modello collettivo. Ma le mutazioni sociali sono segnate nel nostro secolo anche dal flusso migratorio: quasi solo in uscita fino a trent’anni fa, ora esso vede l’Italia come meta di benessere. Un capitolo importante è l’evocazione – sempre attraverso gli occhi “innocenti” dei fotografi – dei conflitti di varia natura: le tensioni sociali, le due guerre, il fascismo, il difficile equilibrio della democrazia repubblicana. 

Alla giustizia e alla religione sono dedicati altri brevi capitoli. E si torna poi al ruolo delle persone: l’immagine dei corpi, i miti dello sport, la moda, l’eros. E il grande scrigno dell’arte: tra i nostri tesori, siamo anche noi tutti artisti, tutti intelligenti? Non proprio, ma la galleria finale di ritratti – alcune star della nostra cultura – può farci pensare a un paese migliore di quanto esso creda…
Resta comunque un paese unico. Lo affermiamo contro ogni tentazione della sub-cultura secessionista, ma anche per ribadire l’irripetibile originalità della sua vicenda. In ognuno dei 22 capitoli ‘tematici’ della ricerca, i grandi fotografi autori portano le loro opere da lontano, le accostano, le intrecciano. Ne risulta anche un’immersione nella vicenda storica della nostra Fotografia, che ogni volta ci sembra di dover riscrivere, precisare, aggiornare.
Infatti, dietro le immagini qui presentate, contano in modo decisivo quelle taciute, e quelle mai eseguite. La produzione fotografica non ha mai seguito in modo puntuale (l’abbiamo detto) il proprio contesto societario. Basta pensare a tutte le occasioni di esercizio del potere che non tollerano sguardi indiscreti, ai pregiudizi collettivi verso le immagini non lusinghiere, ai pudori privati (collegati simmetricamente alle foto “proibite” da distruggere), al rito perbenistico del ritocco, a tutte le forme di censura e autocensura. Milioni di fotografie “mancate” all’appuntamento col nostro racconto.


La crescente “densità fotografica” di cui abbiamo parlato deriva senz’altro anche dagli strumenti tecnici. Agli apparecchi e ai materiali sensibili è più che mai legata la premessa filosofica del fotografare, ieri e domani. Come la possibilità di viaggiare ha liberato le facoltà dei narratori a parole – da Marco Polo in poi – ed ha consentito un allargamento incessante delle esperienze fisiche (sensoriali) quali premesse di una creazione letteraria… così la disponibilità di attrezzature volta a volta più leggere, o più versatili – oppure di pellicole più rapide o più fedeli – ha liberato il linguaggio stesso della fotografia. All’inizio con stupore di fronte alla qualità dello scenario restituito nel fotogramma, e poi via via con un adesione sempre più immediata alle possibilità nuove di rappresentazione. Non potremmo capire gli autori dediti a selezionare fulmineamente gli istanti della commedia umana, se non conoscessimo la rivoluzione tecnica delle fotocamere in piccolo formato. Né potremmo apprezzare i maestri del paesaggio se nulla sapessimo della solenne strumentazione in grande formato, o delle emulsioni a colori.

D’altronde la libertà creativa deriva dalla naturalezza con cui un fotografo accosta l’universo fisico che lo circonda, dalla consapevolezza che egli può cogliere una traccia personale entro il flusso della natura, o della società (o di entrambe), dalla sicurezza di potersi “riconoscere”, di poter trasmettere un proprio punto di vista, mantenendo una possibile veridicità “documentaria” alla propria esperienza. Quel giorno io c’ero, ho visto, ho (più o meno) capito, ho scattato. Conservate il negativo come la prova di quell’intervento sul reale. Era così, lo giuro. Giuro di aver detto tutta la (mia) verità. Ricordatemi con la firma.A fine millennio, questa “storica” funzione di garanzia della ripresa – del fotogramma originale – come testimonianza sulla realtà, è sul punto di annullarsi. Mentre ancora il processo fisico-chimico tradizionale, che precede e accompagna le riprese, viene abitualmente praticato, è nei momenti ulteriori che la rivoluzione incalza. Il successivo trattamento digitale – di questo si tratta – può agire dissolvendo le premesse tecnologiche e “filosofiche” della ripresa fotografica. I fotogrammi analizzati dallo scanner possono venir manipolati, deformati, accoppiati, suddivisi, modificati al loro interno nei loro dati strutturali, ottici o prospettici.

Programmi informatici adeguati servono non solo a trasmettere le foto (o archiviarle nelle banche dati) ma a trasformarle per far emergere nuove possibili, e plausibili “verità”‘ Chi ha vinto, e chi ha perso in quel foto-finish? E i colori di quella montagna? E davvero quel volto appartiene a quel corpo? Non si tratta di nuovi abili fotomontaggi, stavolta. L’antico fotogramma-garanzia può diventare una nuova matrice digitale, o mille diverse matrici indistinguibili. L’originale è scomparso, nessuno lo cerca, non è mai esistito.

Allo stesso modo si sta trasformando l’operatore fotografico: egli sarà il produttore di immagini digitali del futuro. Lasciato a volonterosi tecnici (o a camere robot) il compito faticoso di registrare migliaia di brani approssimati del visibile…il nuovo fotografo, seduto al desk, produrrà febbrili assemblaggi. Il vero momento creativo sarà quello, lontano fisicamente dall’episodio della ripresa, e con un’immagine finale di qualità strutturale identica a quella fotografica.
Forse non è questa l’occasione per paventare i nuovi scenari dell’immagine virtuale alla conquista dell’informazione (essa già pervade la pubblicità). Ma lo è per porre il grande problema etico dell’immagine-testimonianza, per salvaguardarne il possibile valore. E’ in gioco la globale “attendibilità” delle nuove fotografie, dentro codici di linguaggio che vanno al di là delle intenzioni o della pratica creativa dell’autore.
 E’ in gioco il nuovo impatto sui lettori, la loro innocenza di fronte ai poteri del convincimento visivo. Esiste d’altronde anche il rovescio della questione. Le fotografie convenzionali, ad esempio le stampe d’epoca, trasformate in matrici digitali, possono salvare indefinitamente il loro messaggio d’origine. La trasmissione digitale delle immagini è una delle grandi opzioni culturali del secolo futuro, ed è già oggi una realtà su cui si esercitano editori, archivi, società informatiche, colossi della telecomunicazione. Il linguaggio universale delle foto puòmoltiplicare la sua presenza in mille sperduti terminali, ed essere indefinitamente osservata, ristampata, pubblicata, esposta. La fragile carta di un secolo e mezzo fa, la lastra devastata da macchie… potrebbero venir lasciate (si fa per dire) al loro destino.
Anche qui infine si porrebbe un altro problema di etica della comunicazione. Salvare con la memoria visiva, quell’episodio storico, quel reperto di antico intervento fotografico, di esperienza tecnica e forse artistica. Con rispetto, solo quello.

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