testi anni 90

Archivio dello Spazio​

Intervento al Convegno del dicembre 1993 (Atti pubblicati nel 1995)

Parto da una considerazione critica, da un confronto tra l’intervento di Quintavalle e quello successivo di Marescotti. Nel primo si operava un percorso rigidamente ‘estetico’ da cui (in certi passaggi) dissentivo; ma che sostanzialmente aveva un apprezzabile rigore, centrato sulla soggettività del fotografo e del suo occhio, sulla sua condizione di autore. Marescotti, mezz’ora dopo, prescindendo dal discorso di Quintavalle, partiva a considerare le immagini come un elemento passivo di documentazione, ‘l’elemento principe della schedatura’ da esaminare escludendo le interpretazioni intenzionali del fotografo. Poi il successivo intervento della professoressa Gatti Perer ha introdotto un nuovo interessante criterio, quello di una rilettura ‘creativa’ del patrimonio artistico, dei dati culturali dell’ambiente. Come si lega la creatività del fotografo a un’opera, presa come soggetto, che pure possiede una autonoma valenza espressiva? Pongo a voi, anche se l’ora è tarda, una domanda. Com’è possibile per i singoli fotografi obbedire da un lato ad un’innegabile esigenza istituzionale, quella appunto della ‘schedatura’ e dall’altro far contenere alla scheda i connotati della propria visione personale ? Come produrre delle ‘schede’ aperte alla creatività ? A colazione con alcuni amici si faceva il paradossale esempio delle foto di Marina Ballo, segnate da un elemento, una specie di scelta emozionale a favore della nebbia. Di fatto, questa scelta – che pure ci chiarisce i valori intimi della personalità del fotografo – contemporaneamente ci cancella od oscura i dati strutturali dell’oggetto. È’ allora rivelatrice questa scelta di Marina, proprio come ‘desiderio di cancellazione’ degli aspetti che sono la ragione di fondo di una descrizione-schedatura? Estremizzo (perché in quelle foto non tutto è cancellato) ma pongo il problema di linguaggio. L’ ipotetica scelta della sfocatura, o la totale frantumazione tonale sarebbero effetti ancor più decisivi… Un’altra considerazione che voglio fare, si collega ad un incontro che per invito di Ermanno Barchiesi vide riuniti l’anno scorso a Rozzano, per uno scambio di idee, parecchi fotografi coinvolti ne “L’archivio dello spazio”. Non riuscimmo ovviamente a mettere bene a fuoco un possibile atteggiamento linguistico comune nell’approccio ai soggetti. Ma la fatale omogeneità di scelte prospettiche e compositive che oggi notiamo in questa mostra ,come in quella precedente, è cosi evidente da provocare espliciti commenti esterni: sembrano tutte eguali. Allora io mi chiedo come può pervenire un messaggio di grigiore, di appiattimento (anche stavolta estremizzo) da autori che mirano sempre ad essere tali, che possiedono caratteri mentali , produttivi, tra loro diversissimi ? Credo che le modalità dell’incarico professionale assunto , soprattutto i suoi limiti di tempo, siamo le cause dell’omologazione. Non era certo immediata la scadenza (prima della consegna delle foto passano stagioni…) ma era forzatamente compresso, alla fine, il periodo che si poteva dedicare alle riprese, pensiamo anche a casi limite nelle trasferte: Barbieri da Modena, o Jodice da Napoli. In pochissimi giorni, a contatto con una realtà territoriale mai esaminata o indagata, con una relativa mancanza di approfondimento ‘progettuale’ sui beni architettonici presenti… si finisce col lavorare dentro una sintassi visiva che risulta omologata, anche a causa della uniforme strumentazione tecnica usata. Di fronte a questi soggetti, con questi tempi a disposizione, con uno svolgimento limitato di indagine, noi siamo spinti dalla scadenza a valerci in modi obbligati di apparecchi, pellicole, prospettive, scelte di ora del giorno e tipo di illuminazione . Una serie di condizionamenti che offre una non voluta omogeneità di risultati.
A ciò vorrei aggiungere (e stavolta parlo dentro di me, è una specie di diagnosi esistenziale non so quanto condivisa dagli altri fotografi) un altro grave handicap: la nostra deresponsabilizzazione sul piano sociale, la nostra carenza di cultura ‘civile’.
Roberta Valtorta rievocava lo scomparso impegno politico degli anni 70. Credo che un po’ se ne senta la mancanza, credo che il ripiegamento freddo sui dati ‘strutturali’ avvenga perché non si ha più una chiave di lettura politica, o meglio civile, della storia di quei manufatti. Questo tipo di sbandamento , di fragilità nell’indagine, riguarda anche me, non solo le generazioni a me successive. Per soffermarsi con occhi meno omologati sul territorio della nostra Provincia, sarebbe importante aver fatto – come una volta si affermava – una vera ‘inchiesta’, prima di iniziare le riprese fotografiche. Allora non ci fermeremmo solo nei centri storici dei paesi, non rimarremmo fuori dai cancelli; ci si entrerebbe, anche sfidando i cani. Per questi (e in generale, fuor di metafora, per tutti gli ostacoli logistici) vorrei fare un amichevole suggerimento a tutti i colleghi, basato sull’ esperienza. Dobbiamo farci aiutare sul posto dalle istituzioni pubbliche, dai loro servizi come i Vigili, gli Uffici tecnici dei comuni, le biblioteche. Proprio osservando le nostre foto mi accorgo che non tutti abbiamo utilizzato i poteri a disposizione per superare i diversi ‘cancelli’: quelli fisici e quelli normativi, di orario, o di volontà dei proprietari e gestori degli immobili. Allo stesso modo mi colpisce la mancanza di decisione visuale di fronte agli elementi che appaiono denotare una responsabilità di scelta (o di mancata scelta) amministrativa. Ad esempio lo sfascio desolante delle sovrapposizioni di architetture odierne a edifici d’epoca dovrebbe esigere un atteggiamento ‘attraverso la foto’ di risposta critica, anche sdegnata, insomma una presa di posizione culturale o politica… che purtroppo non riesco a notare nella maggioranza delle fotografie. Manca inoltre a mio avviso la capacità di interpretare dei segni materiali presenti nel territorio e nel paesaggio, nel loro valore evocativo, o simbolico. Per esempio, la viabilità, le strade. Soprattutto nel nostro territorio intorno a Milano, esse sono un simbolo del pendolarismo frenetico seguito ai nuovi insediamenti dell’ultimo trentennio. Ma sembra che noi fotografi rifiutiamo di prendere in considerazione lo spazio come collegamento, soglia, limite di passaggi. A me a Corbetta è capitato di fotografare – un’ immagine che poi non è stata esposta – i ragazzi che al sabato pomeriggio saltano sui bus per Milano… simbolo del non riconoscersi nella microsocietà locale,dello sfuggire, del gravitare sul capoluogo per ritrovare insieme un’identità. Ma penso anche alla foto di Basilico sui confini tra Milano e Sesto San Giovanni: cartelli, prospettive che indicano una integrazione pressoché totale. Questo per porre, alla vostra ma anche alla mia attenzione, un mancato approfondimento degli aspetti che pur sappiamo legati al nostro immaginario ma anche al nostro linguaggio visivo. Noi dobbiamo riuscire a portar avanti nuove modalità creative, nuove ideologie e forme d’espressione a partire dalle basi ‘oggettive’ della realtà. Finora non abbiamo avuto il coraggio di far vivere secondo il nostro linguaggio gli elementi che davanti all’obiettivo ci si presentano sparsi, desolanti, confusi. Questo vale ancor di più dove si potrebbero notare le stratificazioni dei momenti produttivi, le vecchie cascine, dove l’agricoltura lascia il posto alla produzione artigianale o industriale e poi si sfascia. O anche le stratificazioni dei riusi, dei restauri conservativi o meno, le trasformazioni delle case coloniche in villette, eccetera…
Vorrei naturalmente proporre, dopo aver posto questi interrogativi critici , anche una sorta di metodo per risolverli. Anzitutto auspico una rilettura più attenta del materiale documentario che la Provincia ci mette a disposizione; nel voluminoso dossier che ci viene fornito si affacciano con nostro disgusto delle orrende riprese fotocopiate che in realtà hanno solo pretese di appunti. Ma proprio da quelle, dai riferimenti bibliografici e descrittivi allegati… noi potremmo partire con la consultazione di guide descrittive tipo Touring, o di testi prodotti localmente. Sono sempre presenti delle forze culturali cittadine, delle librerie specializzate in vicende locali, degli storici, dei parroci colti e interessati. A Parabiago ne ho incontrato uno che aveva addirittura creato un museo di storia comunale nella sua canonica. Insomma, dobbiamo capire ‘prima’ di appostarci con la camera, la storia specifica di quel territorio, le sue vicende visibili e visualizzabili, le sue vere testimonianze ancora in atto. E un ultimo suggerimento. Anche se talvolta è già avvenuto, bisogna favorire la visione e l’utilizzo del nostro lavoro proprio a livello locale. Ogni Comune o Biblioteca civica dovrebbe realizzare una proiezione, una mostra, un incontro sulle foto che li riguardano, e su quelle dei comuni limitrofi, magari mettendo a confronto l’autore proposto dalla Provincia coi fotografi locali. Si chiuderebbe in modo attivo il circuito di comunicazione che noi cerchiamo di aprire, bene o male, all’ atto di ogni ripresa.

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