testi anni 70

L’occhio di Milano

in “L’occhio di Milano. 48 fotografi 1945 -1977”, catalogo della mostra (Milano, Rotonda di via Besana, 11 novembre – 20 dicembre 1997), Editrice Magma, Milano 1977

Questi anni rappresentano un momento cruciale per la produzione e la cultura fotografica. Un ampio dibattito si è sviluppato in tutto il mondo attorno alla «duplicità» di funzione dell’immagine ottica: il momento della testimonianza documentaria sulla realtà (un ruolo scientifico) e il momento di possibile intervento formale del fotografo, per proporre il suo personale sguardo (un ruolo creativo). Tra questi due estremi, esistono innumerevoli sfumature, integrazioni, dipendenze complesse; e vengono così prodotte molteplici visioni, molteplici e diversissime immagini con il carattere costante di un’origine ottica e chimica… cioè con una struttura tecnologica alle spalle, con un «processo» che sembra guidare l’autore anziché esserne guidato. In ogni fotografia si sconta il peso del reale visibile, e del processo di ripresa: ed è questo in sostanza che ne determina l’utilizzo sempre rinnovato nelle indagini artistiche, nelle scienze umane, nelle tecniche di informazione. Proprio perché la fotografia si rivela come elemento di nuova creatività – mentre consente un’autonoma riflessione sui documenti storici – ecco che le mostre, i libri, le proiezioni di immagini si sviluppano come occasione fondamentali d’intervento culturale degli Enti pubblici, non solo verso gli addetti o gli appassionati ma verso tutta la comunità dei cittadini. I documenti fotografici – proprio in quanto collegano i dati oggettivi con una scelta personale degli autori – si presentano come momenti di critica sui fatti, come stimolo verso chi li osserva. Le fotografie conservano una carica informativa, il loro messaggio rappresenta sempre una proposta «aperta». Ognuno può intervenire con una personale interpretazione, a partire dalla testimonianza ottica che gli è offerta.
Il Comune di Milano propone quindi con questa iniziativa anche un metodo nuovo di intervento culturale. Offrendo un campione di «memoria della città» attraverso le fotografie, apre anche con i cittadini una discussione sui modi dello sviluppo urbano. Una rassegna fotografica è una comunicazione che sollecita e attende risposta; come il livello democratico della società oggi richiede, ad ogni momento istituzionale.
Naturalmente una rassegna fotografica su Milano può essere programmata con mille criteri diversi; a noi pare doveroso riassumere in queste righe iniziali quello che abbiamo adottato. L’occhio di Milano comprende anzitutto una serie di opere di fotografi, milanesi di nascita o di adozione, che hanno rivolto il proprio intervento costante verso la struttura e la vita sociale della città. Anche se Milano non vanta una tradizione di pionierismo fotografico paragonabile a quella di Torino, Firenze, Roma, è innegabile che qui a partire dal secondo dopoguerra si sono concentrate le maggiori fonti di produzione editoriale e giornalistica. E accanto si sono sviluppate tutte le più diffuse applicazioni dell’immagine, alla produzione industriale, a quella artistica, a quella pubblicitaria. Ciò significa che un grande numero di foto-giornalisti, di fotografi-artisti, di operatori-documentari (come abbiamo visto le funzioni si integrano, e i meriti non sono differenti) ha lavorato lungo un trentennio nella e sulla nostra città, archiviando milioni di fotogrammi e utilizzandone via via i più idonei nei diversi canali della stampa illustrata. Il metodo di ricerca, pur discutibile, ha riguardato quindi da un lato le personalità «costanti» sulla scena milanese, e dall’altro la misura di un loro intervento specifico e continuo verso la città. Entro tale criterio, pur risultando privilegiati i fotografi impegnati professionalmente, non sono state trascurate alcune figure del mondo «fotoamatoriale». A smentire questo termine, che si ritiene culturalmente negativo, esiste di fatto una notevole produzione condotta da centinaia di fotografi «creativi», il cui tempo libero è stato messo al servizio di indagini visive complesse e meritorie: i risultati più importanti non dovevano in questa occasione restare sepolti nei cassetti privati.

Il passo ulteriore si è compiuto nel determinare i settori di indagine sulla città: «l’occhio di Milano» può vedere tutto e dappertutto, ma non avrebbe avuto senso un gigantesco repertorio con migliaia di immagini di ogni soggetto. Così il motivo di fondo della rassegna è stato quello dei fenomeni sociali, delle circostanze storiche che hanno segnato in profondità questi tre decenni, al di là e al di fuori della cronaca ufficiale. I personaggi tipici non ci sono, o sono pochissimi; protagonisti appaiono collettivamente le generazioni di cittadini che hanno mutato – o visto mutare – a poco a poco la loro Milano. Praticamente in ogni immagine, dalla prima all’ultima, sono presenti personaggi umani; ma il loro apparente «anonimato» è in realtà la prova di una fiducia dei fotografi nell’ambiente sociale, nei fenomeni di massa, che formano il costume e poi la storia. E le istantanee sono tutte colte con immediatezza, senza il filtro di una messa in posa programmata. Mancano quindi i fotografi industriali, i talenti che «mettono in scena» la pubblicità, la moda, l’arredamento, l’erotismo… le schiere di titolari di sale di posa con mille accessori, che pure a Milano sono fiorenti ed hanno sviluppato un grande mercato. (Ad essi il Comune dovrà dedicare un’altra rassegna, il secondo «occhio» per completare il volto fotografico di questa città).
Naturalmente la vicenda dei fenomeni sociali che abbiamo cercato di privilegiare, diventa la vicenda stessa della cultura fotografica nella nostra città. I modi di accostamento alla realtà cambiano con l’evolversi della cultura visiva, e a seconda del generale sviluppo degli altri mezzi di informazione. Si riconosce fino agli anni ’50 l’espansione dei settimanali rotocalco (da Oggi e Epoca a II Mondo) e il modulo disarmato del neorealismo cinematografico. Poi la stampa settimanale entra in crisi sotto i colpi della Tv e la rabbia «da isolamento» dei fotografi professionisti, verso la seconda metà degli anni ’60, diventa un motivo di crescita culturale e politica, di autoriflessione, di coscienza anche sindacale del proprio ruolo. È il periodo – circa 10 anni or sono – che vede la città al centro di un drammatico sforzo di difesa del proprio tessuto democratico. Poi, questi ultimi anni di riflusso economico, e la caduta di ogni ambizione «eroica» dei fotografi più giovani (non c’è più spazio per la grande carriera di reporter…) determinano nei migliori un nuovo rigore nelle scelte narrative: fuori dall’eclettismo si prediligono i temi più personali e diretti, legati all’orizzonte delle proprie esperienze. La fotografia sembra diventare uno specchio privato in cui riflettere se stessi… con cui porsi domande anziché risolvere problemi. E anche i gruppi amatoriali, dimenticata la lontana arcadia «mediterranea» (tramonti, riflessi, controluce, toni alti: il bagaglio pittoricista fino agli anni ’50) scoprono un impegno di cittadini-testimoni che li spinge anche a raccogliere e sviluppare ricerche storiche in forma di archivi permanenti. Così il doppio itinerario (la vicenda dei fotografi e lo sviluppo-crisi della metropoli) si snoda a suo modo, con una relativa coerenza che non è stato facile comporre. Mancano ancora troppi fatti, troppe circostanze… ci veniva da pensare man mano che gli autori facevano pervenire le immagini. E tuttavia il limite numerico della raccolta – quattrocento immagini al massimo, per non logorare oltre il sopportabile la resistenza visiva del pubblico – costituiva parimenti il limite concettuale alla ricerca. Infine l’assoluta libertà per i fotografi di scelta entro le proprie opere, ha fatto restare in ombra alcuni temi che pure sapevamo sviluppati. Ma è giusto: se nelle fotografie-testimonianze apprezziamo gli autori per ciò che hanno avvicinato, per i soggetti scelti…. possiamo criticare e autocriticarci anche per ciò che non abbiamo voluto scegliere. I fenomeni assenti, non indagati o non presentati, contano pesantemente, come quelli scelti o proposti. Le cose taciute sono dietro quelle dette, e da esse dipendono, nell’ombra. Su tutto – e su tutti – è da aprire un dibattito.

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